Oggi è trascorso un anno da quel maledetto giorno. Un anno che ha completamente ribaltato la mia, e credo la nostra, percezione del tempo. Un anno che abbiamo vissuto “sospesi”, limitati, in balìa degli eventi. Un anno in cui il virus ha colpito tutti, e che in molti hanno affrontato nella solitudine.
Quella mattina mi sono svegliato con le prime notizie che arrivavano da Codogno. Solo a metà mattina la prima telefonata di un medico, che lavora a Codogno, e che mi informava di quanto stava avvenendo.
Non riuscivo a capire esattamente cosa stesse succedendo, e non l’ho capito per giorni. Il sabato con Alessia, mia moglie, decidemmo di annullare il battesimo di Caterina previsto per la domenica successiva. Lo facemmo per evitare di trasformare una festa in un’occasione di preoccupazione, viste le notizie che si susseguivamo. Ma lo facemmo anche perchè la preoccupazione stava cominciando a farsi strada. Ciò che fino a poche ore prima era lontanissimo, era arrivato vicino a noi.
In quelle ore ricevevo molti messaggi di medici e infermieri degli ospedali di Cremona, Crema e Casalmaggiore che raccontavano cose che non avevo mai sentito, che non riuscivo davvero a capire. Lo ammetto: pensavo esagerassero. Ma non era così. La domenica (23 febbraio) tenemmo la prima riunione con tutti i sindaci. Un primo segnale di unità e preoccupazione condivisa che ci ha accompagnato per molto tempo, e che prosegue tutt’oggi. Quel giorno la comunicazione delle prime misure di contenimento da gestire, e le prime chiusure.
Il 24 febbraio la prima comunicazione degli ospedali di Cremona, Crema e Casalmaggiore che diceva che, a fronte di sintomi come tosse e febbre, di non recarsi al pronto soccorso perchè già in difficoltà. Il martedì ci fu seduta di consiglio regionale, e il Presidente Fontana intervenne per rappresentare la situazione, ripetendo anche lui ciò che tutti andavano dicendo: era poco più di un’influenza. Ma non era così. Terminato il suo intervento, mi avvicinati a lui e all’allora assessore Gallera per rappresentare loro che tra Cremona e Crema stava succedendo qualcosa nei nostri ospedali, chiedendo loro di verificare. Mi dissero che lo avrebbero fatto.
La sera rientrai a casa, con qualche linea di febbre. Visti i messaggi che ricevevo, e complice la forte apprensione di mia moglie avendo anche due bambini piccoli, lei e i bimbi si trasferirono dai miei suoceri fino a sabato. Non si parlava ancora di isolamenti e test rapidi. In quei giorni caricavo il telefono almeno 5 o 6 volte al giorno. Telefonate, mail, messaggi. Centinaia al giorno, ogni giorno.
Proprio in quei giorni mi attivai per sbloccare la situazione del laboratorio di analisi per i tamponi dell’ospedale di Cremona, che non riceveva l’autorizzazione dalla Regione per effettuare i tamponi. Ci riuscimmo. Dopo un anno il laboratorio ha eseguito circa 150mila tamponi. E poi le prime telefonate dalle Rsa che, prima di tutto e di tutti, decisero di chiudere gli ingressi tra il 22 e il 23 febbraio. Una scelta difficile ma giusta, anche se il virus era, purtroppo, già presente. Anche per questo ho criticato fortemente le delibere regionali dell’8 marzo e del 23 aprile che chiedevano a queste strutture di ospitare i pazienti covid dimessi dagli ospedali. E poi i contatti con le strutture e le associazioni dei disabili. Lasciati soli per molto tempo a gestire una situazione drammatica.
E nel frattempo negli ospedali arrivavano decine di persone al giorno. Ai medici e infermieri mancano i camici e le mascherine. Non c’erano abbastanza macchine per la respirazione. L’ossigeno cominciava a mancare e i medici si sono trovati a decidere chi poter provare a salvare e chi no. Ho sentito storie e racconti di medici, infermieri e operatori sanitari da brividi.
In quei giorni telefonavo e scrivevo in Regione ogni giorno. Segnalavo la situazione, i problemi, chiedevo di intervenire sui camici, sulle macchine, sulla necessità di portare nei nostri ospedali personale da altre realtà. Intanto cominciavano ad arrivare le notizie dei primi decessi. Ogni mattina avevo paura ad aprire il telefono, pensando di trovare l’ennesimo messaggio che mi comunicava la scomparsa di una persona o di un amico.
Il primo è stato Francesco Cattaneo, detto ‘Bofa’. Era il 28 febbraio. Francesco è stato un volontario delle nostre feste che frequentava l’Arci di santa Maria, dove è stato registrato il focolaio che ha poi colpito anche Hermes e Maria Rosa, anche loro morti. Poi ancora Dario, Gigi, il dott. Luigi Ablondi, Gianni del Fulmine, Luciangelo, Enza, Giancarlo, Evelise, Arrigo, Diana, Luigi e tanti altri. Non tutti morti a causa del covid, ma comunque persone e amici mancate nella pandemia.
Il primo lockdown, in un’atsmosfera surreale. Le strade vuote, di giorno e di notte. Le code al supermercato. E i primi grandi gesti di solidarietà, piccoli e grandi, privati e pubblici, tra cui la nascita dell’associazione “Uniti per la provincia di Cremona”.
Straordinari e commoventi. Un sentimento di condivisione che dobbiamo ricordare, rafforzare e tenerci stretto il più a lungo possibile.
Quando poi arrivò l’ospedale militare da campo, insieme ai medici cubani, tirammo un sospiro di sollievo. Il 10 marzo contattai Lorenzo Guerini, Ministro della Difesa, per chiedergli “una mano del Governo e di inviarci l’esercito”. Rispose subito per dirsi disponibile. Si attivarono tutti i canali formali e istituzionali, e Il 18 marzo arrivò la telefonata che confermava l’arrivo dei militari. Chiusa la telefonata, ho pianto. Un pianto per liberare lo stress accumulato in quei giorni. Pochi giorni dopo l’ospedale fu operativo anche grazie all’arrivo dei medici cubani, arrivati in Italia grazie anche al supporto della Farnesina, anch’essa contatta in quei giorni.
Furono due mesi importanti, perchè non ci sentivamo più soli. E insieme all’ospedale di Crema arrivò anche l’ospedale da campo a Cremona, grazie all’associazione americana Samaritan’s Purse.
E poi Elio, bloccato in Nepal. Da aiutare per riportarlo a casa, prima che la figlia partorisse. Ci riuscimmo, e fu bello.
Finiva la primavera e si smontarono gli ospedali da campo. L’estate era alle porte e il sole sembrava consegnarci un periodo di tregua. Ma il virus si era ormai diffuso ovunque, e l’autunno cominciò a colpire le altre province: Milano, Varese, Monza e Como soprattutto.
E con loro la chiusura delle scuole, la promessa di riaprirle ma senza riuscirci fino a gennaio. Da noi, tutto sommato, la situazione è migliorata.
Le ferite ci sono tutte, e molte non si vedono.
Non so quando potremo fermarci a pensare a quanto accaduto. A pensare a chi non c’è più. A pensare a ciò che avevamo e a ciò che ora siamo. C’è ancora molto da fare.
Adesso dobbiamo impegnarci a sconfiggere il virus grazie al vaccino, che è arrivato ma che deve arrivare. E affrontare l’insidia delle varianti, aumentando le azioni di tracciamento e sorveglianza sanitaria, senza mai abbassare la guardia.
Pensare al lavoro, a chi lo ha perso e rischia di perderlo.
Costruire una sanità più vicina alle persone, sostenendo i medici di base e tutti gli operatori socio sanitari.
A chi lavora negli ospedali, a chi va a case delle persone, a chi si occupa delle tante fragilità che questa pandemia ha aumentato.
E’ stato un anno drammatico. Un anno maledetto. Viviamo ancora un tempo sospeso. Al lavoro per costruire un tempo nuovo.